Il tempo che stiamo vivendo in alcuni fa riattivare memorie lontane che vengono dal campo, dallo stadio, dal ring, dalla palestra, riportando al presente sensazioni, emozioni, paure ed interrogativi lontani.
Chi è stato giocatore o giocatrice, infatti, lo sa: l’infortunio arriva quando meno te lo aspetti e improvvisamente rivoluziona la quotidianità, a breve e, nei casi peggiori, a medio o lungo termine.
L’infortunio ti toglie la routine settimanale, che si compone di giorno libero – ripresa allenamenti – allenamento – allenamento – pizza con la squadra – partenza per la trasferta – partita – giorno libero. Ti estranea da tutto, togliendoti il conforto delle abitudini quotidiane: la squadra si allena, parte, va e torna. Tu resti lì immobile e sospeso senza sapere bene cosa fare.
L’infortunio rivoluziona il linguaggio quotidiano: non più assist, calci di rigore, taglia fuori, dai e vai, ricezione, palleggio, ma legamento, terapia, rieducazione, antidolorifico, intervento, clinica, ospedale. L’infortunio suscita rabbia e senso di impotenza: non dipende da te, ma agisce su di te. Amplifica le emozioni ed il senso di vuoto. Genera l’ansia da programmi saltati: oggi sarei dovuto partire per la trasferta più bella dell’anno, domani sarebbe arrivata la convocazione in nazionale, dopodomani avremmo giocato la finale scudetto. Invece tutto si ferma, tutto viene annullato.
Sindrome da agenda saltata, che resta bianca a tempo indeterminato
Dopo settimane, mesi o anche anni in cui i ritmi senza sosta facevano sperare (a volte invocare) un po’ di tempo libero, quando arriva l’infortunio, quel tempo, non è libero: è vuoto. Perché non è una scelta, è una costrizione. L’infortunio amplifica ogni sensazione, ti spinge ad ascoltare con attenzione maniacale ogni più piccolo segnale che il corpo invia, per intercettare o, forse, solo intuire miglioramenti anche minimi che ci permettano di azzardare le tempistiche si recupero e la fine dell’isolamento.
La ripresa, la fase 2
Così come ora tutti siamo attaccati alle curve del contagio, che analizziamo, pesiamo, misuriamo, confrontiamo, “nettizziamo” o “lordizziamo”. L’Italia pare stretta nella morsa di un grande infortunio collettivo: ci dibattiamo, non ci rassegniamo, cerchiamo ostinatamente, di fare previsioni, ci facciamo travolgere da improvvise ondate di speranza per ogni minima variazione dei contagi, per poi sprofondare in stati depressivi quando quelle curve tornano a salire e profonda tristezza e commozione alla desolante conta delle vittime.
La domanda ricorrente è: quanto ci vorrà?
A quando il rientro il campo? E ciò che più inquieta è il senso di indeterminatezza: non si sa. Si possono azzardare previsioni, ma in realtà non si sa quando la caviglia si sgonfierà o il ginocchio tornerà a piegarsi dopo la ricostruzione del crociato.
Adesso non si sa quando la curva piegherà definitivamente. Non si sa quando si troveranno cura e vaccino. Tutti però dovremmo sapere che l’infortunio, proprio come il contagio, a i suoi tempi, che con i nostri comportamenti (terapie e rieducazione, come applicazione delle misure di distanziamento sociale e utilizzo del Dpi) possiamo fare molto, ma non tutto.
Possiamo accelerare o rallentare, ma c’è un ingrediente essenziale in ogni rieducazione: la pazienza. E la consapevolezza che l’infortunio non ci restituisce al campo mai uguali a prima. Né fisicamente, né mentalmente.
Una caviglia infortunata si fascia per mesi o per anni, anche quando si torna su campo. Ecco prepariamoci con pazienza a un ritorno ad un nuovo agonismo, con tempi, attenzioni, precauzioni (fisiche, igienico sanitarie, ma anche sociali ed economiche) necessariamente diverse. E non sempre è un male. In quanti, dopo un infortunio, hanno apprezzato molto di più il valore di una vittoria conquistata sul campo e hanno imparato a rispettare e lavorare con il proprio corpo in modo completamente differente e più consapevole?
Alice Pedrazzi, giornalista, ex Nazionale di Basket.
Articolo uscito su LA STAMPA